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Rated: · Poetry · Other · #1295026
Sulla scia di Dante
Nel mezzo del cammin di nostra vita
mi ritrovai per una selva oscura
ché la diritta via era smarrita.

Della città volli varcar le mura
e perseguir la strada ch’è maestra,
ma tosto m’accorsi che l’insicura

guida facea ch’io deviassi a destra.
Gli chiesi sommesso di raddrizzare
o che s’andasse almeno a sinistra.

“Con le parole non s’ottien di fare,”
egli mi disse parlandomi scortese,
“una mèta tu abbi ad indicare.”

“Credo ch’io voglio a fine d’ogni mese
trovar quell’energia che scaldar possa
la mente e il corpo mio che ad imprese

aspirano come al calcio le ossa,”
dissi alla guida che ora m’osservava.
“A me sembra di capire ch’è una scossa

che tu cerchi,” s’espresse lui e si stava
ritto in piedi e braccia al petto.
“Stramazzarti può però o t’aggrava

nel tuo male e ti muori nel tuo letto.”
“Son convinto: non s’avvera il testé,
io m’attendo ch’una scossa diletto

renda me a me com’agli altri com’a te.
Per principiar con amore, Beatrice
conoscer vorrei. Non dimandar perché.”

“Amico, non son io una meretrice,”
fé la guida che si nomina Tommaso,
“tu mi paghi, è lo vero,” egli dice,

“ma se femmina cerchi, usa il naso,
lo tuo e non quello d’altro messere
ch’à da pensar non a te, ma al suo caso.”

“Quel che di Beatrice devi sapere,
Tommaso mio, è ch’ella tanto gentil’e
tant’onesta pare…” “Come? Parere?

Se solo pare, ella non vuoi gentile
e onesta come la descrivi quivi,”
dice l’interlocutor mio, scurrile.

“Ella pare quand’appare, non capivi?
Sempre è, che paia o non appaia.”
“Ma dov’è ‘sta Beatrice? Ella è ivi

o sta altrove? E’ forse in legnaia?
O in mezzo alle capre? Io vo’ vedere.”
“Ella è qui,” diss’io, “perenne gaia,

in test’a me.” E fo come tenère
la cervice coll’indice. Lui scoppietta
come fuoco sfavillante: mantenere

vuolsi serio ma risata schietta
prorompe dal suo petto e gl’agghigna
il faccione. “Il tuo fare non rispetta

il sentir mio e il mio cor digrigna,”
volli sì rimproverarlo. Lui mi fece
grandi scuse e m’offrì della vigna

il succo del frutto suo che fece
ritornar me di buonumore e la strada
riprendemmo dopo d’una prece.

Fitta assai si fe’ la selva, brada,
scura ed intricata. Io tenea la testa
alta a cercar cogl’occhi il cielo. “Bada,”

d’un tratto disse Tommaso: “fa festa
col cervello chi rischia d’inciampare
tra pericoli del suolo perché desta

è l’attenzione a luce che scompare,”
e mi resse mentr’io cadevo fesso
per un sasso traditore che celare

si facea dall’erba alta. “Fin adesso
ti va bene,” poi aggiunse in ton di sfida,
“ch’io ti son davvero amico spesso.”

“Il ciel veder volevo che m’è guida,”
urlai. “Se il cielo guati tropp’a lungo,
Beatrice in testa ti resta e le grida

tue non la faran materia, ti pungo?”
domandò facendomi arrossire.
“Alla dura gogna mi terrai a lungo?”

chiesi con sguardo supplice d’ire.
“Con te vien che mi comporto amaro,
tal con mio figliolo. Son le tue mire

come quelle di fanciullo.”“Sii caro,
io t’en prego,” dissi allora a quel mio servo.
“E’ pel ben che io ti voglio, ch’è paro

a quel per mio Carletto che conservo
dentro al core: è per ciò ch’io sì ti parlo.
Le vertade ch’io gli narro, lui ch’è nervo,

se le prende quale affronto. Ah, domarlo
con ragione: è il pensiero d’ogni padre.
S’io gli dico con affetto: impara, Carlo,

a far di conto ché al mercato ladre
persone incontrar potresti, lui un bacio
mi regala e ricorda che sua madre,

buona donna, purtroppo morta, cacio
comprava e uccelletti nei negozi
e imbrogliar non si facea. Lincio

chi mi vuol fregar, ea dicea. Gli ozi
altrui non han da diventar pesi miei.
E non sapea di matematica che rozzi

elementi. Perciocché io penso: si è i
martiri dei figli quando istruzione
vuoi dar loro e gli dici ‘i’ è ‘i’.”

“La moglie tua, pur senza cognizione,”
volli consolarlo, “dicea cose egregie.”
“Eh, ma i figli ti fan sentir coglione.”

E si smise di parlar di cose regie.
S’addivenne poco appresso alla fonte
d’un torrente d’acque pure fresche e ligie,

che scendean forti e sicure da monte
irto. Tosto abbeverai le budella
mie assetate, lieto de l’arconte

che tal natura creò sì bella
e servizievole. Tommaso mise
i pie’ a mollo e li movea nella

letizia: pur senza capir, commise
turbativa umana nel fluido scorrer
de l’acqua de la selva: moto immise

che pria non c’era. D’un colpo accorrer
vid’io verso di noi un bel capriolo
che stecchì a me dinanzi. Soccorrer

esso non fu cosa, a mo’ di punteruolo
conficcato s’era in suo fianco ramo
solido e fino. Non si può dir che duolo

mostrò Tommaso a quella vista: “Famo
tosto grande arrosto di cotal fortuna,”
esclamò a veder il corpo gramo

levando dal rio l’arti suoi com’una
Furia lontana da misericordia
e posati essi al sol, senza veruna

tema, venne e l’animal, che ricordi, a
forza di tagli dissanguò per sfamarci.
Io raccolsi molti legni: sordi a

gola non eravamo. Del ciel squarci
io vedea dopo de la selva il nero.
Alle tre più non udimmo, a cibarci,

trambusto di stomaci. Accorto m’ero
che l’acqua e il cibo fan men tetro
il buio de la mente, com’anch’è vero

che non di solo pan... disse uno dietro. 106



II

Lo giorno se n’andava e noi si giunse
nei pressi d’un molino che grandi pale
avea. La stra’ ch’ivi portava assunse

largo aspetto. D’un tratto “L’assale,”
sentimmo urlare da qualche parte
e ci voltammo inver la vocale.

Due omini vedemmo e un che parte,
lancia in resta, alla presa del molino:
cavalcaa come fosse un di Marte.

Segaligno e con un becco, il divino
ei parea voler sfidare: “Che tu fai?”
gli diss’io ma lui era in suo destino.

La sua lancia nella pala entrò presto,
e un fracasso se n’avvenne: che lo
cavalier fu sbalzato e restò pesto

sulla terra a dolorarsi. “Chi melo
dice ch’io sogno?” m’assillò Tommaso.
“Codesta è realtà, i’ ancor mi gelo,

ma il padron mio Chisciotte evaso
è da ragione e tali cose face,
perdonate, convien non farci caso,”

fé lo scudier nel mentre noi si tace
sorpresi e lesto ci sorpassa a soccorrer
su sua soma il padron suo che piace

a quelli strambi. Anco noi accorrer
dovemmo, ché il cavalier stentava
a rassettarsi e le braccia sua correr

facea nell’aere e li pugni mostrava
a minacciar il molino e gli annessi.
“Gigante e drago,” viro gli gridava,

“conosciuto ancor non hai li possessi
di Chisciotte. Padron son de la romanza
e m’avvalgo d’ogni arma ch’io lessi.

Tu sei grosso: è da ciò che trai baldanza,
ma i miei amici, sta sicuro, presto
mi suggeriranno qual sarà danza

che tu ballerai, qual’esca mio pasto
ti renderà; dei saper ch’io son affine
alla perseveranza: se son rimasto

sempr’in vita, è per essa, che fine
mai ha. M’è amico pur l’ardimento,
ch’agisce me tramite per il fine

suo, ragion per cui bollo e fermento
dinanzi all’ingiustizia dell’esser tuo.
Io son hidalgo e cotal mi sento

nobile e nobil d’animo; or tu, o
gigante, inchinati a mia persona
ch’anzi ti sfidò e noi sarem un duo,

ché nobiltà dimostra chi perdona
al pari di chi perdonare si face,
scendi orsù a mio livello, sprona

te d’umiltà convinta, poiché spiace
chi s’ammanta di grandezza inane;
lascia che s’infiammino come brace

le membra tue quand’io le rendo sane
appoggiandoti esta spada su spalla
sì ch’io fò di te un pari a me, fa ne

la mente pensiero a ciò, ch’io non falla.”
Detto questo, il cavalier il capo
chinò e curare si fece dalla

provvida mano di scudier. Daccapo
volea ricominciare con lancia
contr’il molino, a veder che sciapo

era il desìo d’esso d’abbassar la faccia.
Ma noi lo si trattiene e lo scudier,
saggio per due, fa sì che il si taccia

declamando l’amor che il cavalier
nutre per Dulcinea del Toboso,
donna di lignaggio alto e fier.

“Esist’ella?” chie’ Tommaso sospettoso:
truce lo guato e lui distoglie l’occhi.
Intanto s’era l’ossesso a riposo

collocato: “In attesa che scocchi,
al risveglio, di nuova avventura
il desiderio. Certo è che di tocchi

siffatti lor signori mai in natura
ebbero modo d’osservare. Sancio
io sono e lui è don Chisciotte, pura

creatura, signore de la Mancia.”
Così disse l’uomo sollevandosi
dal padrone disteso e la pancia

davver prominente ponendosi
fra sé e noi. I’ e Tommà c’inchinammo
a presentarci e dimande gli posi,

e col sole noi pure tramontammo
da nostre celesti certezze, scossi
nell’animo da quanto ascoltammo.

Nel mentre che Sancio parlava, mossi
c’eravam, io e chi m’accompagnava,
per assemblar legna e fogli’e sassi,

onde far fuoco sì che si cenava.
“Dulcinea è contadina,” Sancio disse,
“ma a lui nobildonna ella sembrava.”

“Come il molino gli parea chi Ulisse
chiamò Nessuno,” intervenne Tommaso
e resti cosse di capriol che visse.

L’aroma de la carne presto al naso
giunse del cavalier ch’era dormiente
e lui si svegliò: “Com’è che sto raso?”

domandò a Sancio in pie’ s’ergente.
Poi rintronato venne al fuoco e tetro
dall’alto tutti squadrandoci veemente

esclamò: “Chi sono, al desco nostro
seduti, esti umani?” Sancio fe’ nomi
mio e di Tommaso al cavalier. D’estro

poetico preso, il c’informò che “Domi
mai saremo a crudezza del mondo,
io e Sancio e Ronzinante, com’i

servi de la gleba che stan in fondo.”
Quindi s’assise a noi accanto e carne
dimandò per sue necessità. “Grondo

di stima,” diss’io, “e di cibo farne
uso miglior non si puote che darlo
a compagni par te e Sancio, eterne

figure di cui pensier si serve.” E passarlo
personalmente a lui volli un pezzo
di capriolo arrosto. “Tu pari qual Carlo,”

si volse allor a me Tommaso, “e grezzo
mi sento a dir ciò: tu grondi di stima,
ma io grondo di sudore, ché mezzo

capriolo è già finito e non per rima
dobbiam cercar di che altro cibarci.”
“Vien ‘compagni’ da ‘cum panis’, prima

latino e che vuol significarci
che obbligo è a dividere il pane.”
“Ben mi sta,” Tommaso fe’ “son marci

i dicitori contrari, ma grane
il nobil nostro ci procura ché pure
un tal Ronzinante vuol che rimane

indomo e con carne nostra di cure
vorrà fornire.” Ma prese Sancio a sostenere
ilare, che “Di vegetali misture

solo nutresi il Ronzin del cavaliere.”
A sentir, tosto s’alzò il Chisciotte:
“Vien Sancio,” ordinò rosso in viso, “ch’avere

a mangiare la robba d’altri la notte
nella mente apporta. Patiam piuttosto,
sa di sale lo pane altrui: a dotte

persone sentii dir.” “T’en prego tosto,”
dissi in pie’, “resta,cavalier nostro,
ché mio sento su sal’e pane il composto

e Tommaso per pena lo fo Silvestro.” 186


III

“Signor mio,” scattò Silvestro, “conservar
voglio il nome ch’appartiene al core
di miei parenti che sì soglion m’appellar.”

“Giustizia mosse il mio alto fattore,”
i’ risposi, “ché dar segno immediato
devo all’ospite illustre: si more

chi cavalleria non rispetta e nato
al suo posto è omo di dolce stil novo.”
“Pur che Silvestro m’hai rigenerato

tu dolce non mi verrai, né ci provo.”
“Or taci, Silvestro, ché il cavalier
parlar vole.” “Significante trovo

che al cenno mio Sancio, lo scudier
non sollevò da nuda terra il dietro:
è per tanto ch’intraprendo il sentier

di tolleranza e perdono Silvestro
tenendo per buona tua punizione;
or consenti che m’allontani e l’astro

lunare osservi da solo in funzione
de la stima ch’io nutro pel mistero
del creato tutto che mai si fa finzione.”

Andato che fu Chisciotte, io m’ero
seduto in terra, da Silvestro emulato
e in me sentìa tristezza, invero.

“Mangiate, amici miei,” esortò spigliato
Sancio e del pane, tratto da suo sacco,
ci porse con allegria e scarmigliato.

“Che vi prende?” aggiunse poi, “che fiacco
vedo il color vostro. Non fatevi intristir
dal padron mio amato che d’acciacco

suo non vorrebbe chicchessia investir.
La giustizia ch’egli agogna e cerca
giammai potremo su terra avvertir

che s’abbia, seppur è bella ricerca.”
“Tu parli come Tommaso,” allora
dissi. “Son contento che dalla forca

m’hai liberato e ripreso hai or ora
a chiamarmi con il nome ch’è mio.”
“Oh Silvestro, causa persa tu perora,

poiché a Tommaso D’Aquino pio
mi riferivo ch’è gran filosofo,
di quei che pensan come piace a Dio.”

“Che dicea costui, dicci, ch’io se so fo?”
“L’Aquinate ritien che se io bramo
Dio o la giustizia, tal’amor lo fo

vero anche soltanto se tramo
di percorrere la strada che port’a
Loro, pur sapendo che non possiamo

in terra far sì che tal méta sia scorta.”
“Don Chisciotte invé, a ciò non s’adegua,”
riprese a parlar Sancio, “vita morta

chiama l’esister di colui che tregua
offre a chi s’avversa a vero senza
giustificazion altra che si segua

il vantaggio proprio e non l’essenza.”
Dimandò allor scettico Silvestro:
“Cosa c’entra il molino con l’essenza?”

“Non sempre io capisco, son maldestro,
il modo di veder del cavaliere,
quello ch’io posso dire è che m’addestro

a capirne d’intelletto il volere.
Or sentite la storia che racconto:
s’andava noi due per il sentiere

quando gli parve di veder affronto
a l’idea d’omo libero ch’egli stima;
in catene eran persone e lui pronto

si fa per salvar costoro e mima
ver duello con chi pon coercizione,
sol che li veri banditi, che cima,

eran gl’incatenati, a intenzione
di guardie condotti, e il scioglie
lestofanti rei e sfid’a tenzone

chi per suo travaglio in lui incoglie.”
Fu allora che vedemmo tornare
Chisciotte il quale noi lieti accoglie;

mentr’il siede noto baluginare
su volto suo luce di fuoco che a
spegnersi va: piacer non puote dare

sua grev’espression’e l’amaro che a
noi si trasmette dalle sue pupille
quando le move perdute o che a

cielo dirige a cercar faville
d’un dio terren che l’aiuti in sua lotta
e lui affermi che son più di mille

coloro che combattono la rotta
sbagliata che l’umano à intrapresa.
Spande lacrime asciutte, lai sbotta

che nessun ode, singulto d’intesa
tien con la notte che il dì si piange.
Tra parole e silenzi l’alba attesa

alfin giunse, dirò senz’altre frange.
E noi si riprese nostro cammino,
di quei vivi che stanchezza nol tange,

chi a pie’ chi a caval di Ronzino
chi sulla groppa d’utile asinello
per fame d’attraversar d’Unetrino

fantasia che realtà si fece nello
svolgere d’una sola settimana.
Un gregge di pecore il cui vello

lor pastori tiravan per far lana
un po’ appresso a noi sbarrò la strada
e l’ira del cavalier si fe’ frana:

“Animali ovini e umani, v’aggrada
dunque di separar la via futura
di noi nobili viandanti cui bada

il voler divino e che natura
apprezza da lo percorso passato?
Come osate voi por siffatta cura

a fermar chi è strumento del fato?
Tosto allor si mova, pria che mia lancia
s’abbatta su scellerati che prato

fan loro, al Signor della Mancia
impedendo ed agli amici suoi
di transitare nel modo che l’ancia

fa passar il fiato che in suono puoi
udir poi trasformato: s’obbedisca
se saggiamente non si vol ch’io scuoi

ruminanti e parlanti e sol lisca
d’essi rimanga al fin di testimonio
d’un’esistenza nata acché fallisca.”

“Matto è costui?” dimandò un pastore
a me rivolto nel mentre Ronzino
avea preso a scalciar nervoso fore

di controllo per via del gran casino,
costringendo Chisciotte a prodigarsi
per portar chi portava il suo bacino.

“Il cavalier che noi onora parsi
strambo ad occhi oscuri perché l’ingiusto
teme e sovvertir vuole a indignarsi.”

“La carne di nostre pecore gusto
d’omini fa felice come latt’e
formaggio e quant’altro: dov’è l’ingiusto

del qual favelli? Come tu ribatte?”
“Amico, nella sostanza s’impiglia
il ragionare. Son però esatte

l’interrogazioni su giustizia ch’il piglia.” 246



IV

Come persona ch’è per forza desta
io mi riscossi lo giorno seguente
a sentir tuono che rompea la testa.

Presto corremmo lontan da torrente
dove la notte avevamo trascorsa
per tema che l’acque, ch’amico sente

chiare fresche e dolci, presa rincorsa,
mostrassero l’impeto ch’è pur loro
allorché quelle di cielo, percorsa

l’aere, s’abbraccian a l’altr’e coro
insieme fan ch’inonda ognidove.
Grotta videmmo che sembrava foro

indentro la roccia, fatto se piove
per riparare, e lì ci ficcammo
giust’in tempo ond’evitar che altrove

noi si restasse e diluvio scampammo.
Il coperto ci fè allegri tutti,
pur l’animali e insiem cantammo

lodi al creato ed a’ suoi belli frutti
nel mentre le gocce cadean fitte
all’esterno e assorbivan luce.

Quand’ecco una voce udimmo: “Bitte,
io son mago di Germania e in fond’a
grotta sto: so che siete genti invitte.”

Ci voltammo lesti in direzion d’onda
sonora e dall’oscuro grosso venn’e
alto omo vecchiardo che di monda

veste bianca vestia e Sancio svenn’e
cadde per cu’io stava a lui andando
ma braccio di mago lontan mi tenn’e

sua voce tonante a me parlando
rivolse: “Non ti curar di sincòpe,
poiché io so ch’il si va rianimando;

altra è tua missione: dentro l’Europe
intière tu dèì equilibrar li matti
facend’uso di mezzi tutti e rope

che l’art’e resto e li strani fatti
metteranno alla tua disposizione.”
“Pope, già m’hanno sfinito tuoi patti”

il dissi “che son forieri d’azione
lunga e rigorosa pur se lusingan
mie cervella disposte a tensione

di questa natura; ma che non fingan
mie virtù: m’obbligano esse a dire
che per tal impresa occorre che cingan

la spada de l’intelletto l’ardire
e la misura non d’uno soltanto
ma di gente d’ora e de l’avvenire,

ché far da solo neanche un santo
puote e per darti a capir quant’è dura
è come s’io ti dicessi: intanto

ch’equilibro li matti nostri, cura
tu d’andar in Cina alla veneranda
età che hai raggiunto e ch’è matura.”

“Sancio è morto e saluti vi manda,”
sentii allor dire a Silvestro chino
su corpo di scudiero e che sbanda,

quasi cade, mentre s’alza e di vino
corre a imbeversi il gargarozzo
finché fiasco ne contiene, fino

a colmar di spirto il vuoto mozzo
che morte lascia in alma di vivo.
“Ei non dovea morire in sì tozzo

modo e lontan da suo vero arrivo,”
disse mago irato mentre Chisciotte
inginocchiatosi ponea su schivo

viso la mano sua e gli diè notte
abbassandogli palpebr’e clamando:
“Sancio, amico e custode, di lotte

mie ti meravigliasti fin a quando
comprension di me cielo ti offerse.
All’istessa maniera io comando

creato acché com’è ch’io ti perse
mi renda dotto. Non è abbastanza
dir per sincope o d’altro: ch’io sappia

la causa ultima, qual sostanza
in te marcì prima e di veleno
inondò ‘l tuo corpo e la prestanza

da esso fece che venisse meno.
In questa grotta fuor da tuo paese
in mentre che diluvio senza freno

s’abbatteva su campagna cortese
tu te n’andasti solo e d’improvviso
e raggiungesti l’antenate imprese.

Con chi di Dulcinea dirò? Viso
suo chi mi descriverà in presenza
come tu facei? Asinello ch’è piso

non sentirà egli assurd’assenza?
A questi nuovi amici, sta sicuro,
di te parlerò e vedrai ch’essenza

tua si tramanderà dentro futuro.”
Ciò detto il cavalier si sollevò
e uscì da grotta e s’immerse puro

in diluvio e noi videmmo che levò
braccia e capo e Cristo di spalle parve.
Silvestro lacrime da sacca prelevò

senza cessa e in quantità e scomparve
in parte buia di grotta e lai emise.
Il mago benedì e disse: “Larve

tua carne mangeranno presto, lise
saranno tue indumenta, nessuno
però nessun mai, l’anima…” e rise.

Poi venne a me e dimandò se uno
come lui potea prender posto di Sancio
e partir con noi in cerca dell’Uno.

“A trovar la retta via i’ mi lancio
e Silvestro m’è guida, di ragione
pare ch’abbisogna più che del rancio

l’amico cavaliere ed è questione
che tal fini nostri ben conciliansi
nell’Uno tuo e che noi amiamo

al par di quelli che d’amor saziansi,”
risposi a mago e poi con Silvestro
lì vegliammo come morti vegliansi.

Dalla grotta sotto un pino silvestro
si vedea Chisciotte ch’era accucciato
incurante di pioggia e per capestro

sembrava ei pronto, addolorato
oltremodo per morte di scudiero.
Fulmine l’illuminò che levato

dito a cielo e sguardo, Dio davvero
volea tacciare di sua mestizia.
E Signore l’udì come chi cero

in chiesa pone per chieder giustizia.
E venne sequela di tuon’e suoni
e lampi fatti da Chi tien perizia

per cui tra le stupite acclamazioni
nostre s’ebbe a compiere miracolo
e Sancio si svegliò da perdizioni.

E sfregati l’occhi disse: “Cavolo,
che bella dormita ch’i mi son fatta,
e voi perché come attorn’a tavolo

state intorno a me? Com’a chi si schiatta.”
Di gioia esultò Silvestro e baci
gli dava e abbracci e sulla tratta

di Chisciotte poi si mise. “Or taci,”
diss’io contento, “ché noi ti si credea
da sincope stroncato e cor in paci.”

“Che si rianimava io così dicea,”
parlò il mago felice e sbalordiva
Sancio a saper che morto lo si facea.

Ed ecco tornar Silve’ cui seguiva
fradicio cavalier che suscitato
afferrò e fè sollevare e viva

espressione riapparvegli e beato
dipoi si quietò e solido disse:
“Amico, sorprese che fa il fato

son impossibili a sapersi: visse
chi more, il resto è fanfaluca.”
“Per festa e per rima,” io pure disse

“occor che Silvestro si faccia Luca.” 17



V

“Luca o Silvestro, per me pari sono,”
s’offese Luca, “e chi così vuolsi
io non dimando per non farti dono.”

E, pioggia cessata, in tutti colsi
desiderio di riprender cammino.
Ultimi dubbi a mago di nord i’tolsi,

che c’accusava di non parlar latino,
al dirgli che si voleva far lode
in lingua nova al Signor Unetrino.

“Grotta che m’accogliesti, odi l’ode
ch’io ti fo dopo lustri e decenni:
custodisti mia solitudine da mode

fugaci consentendo che perenni
meditate preghiere s’instillassero
in mente e cor miei siccome cenni

che per tramite d’anima venissero
da Lui diretti al fin che l’incontro.
Grotta che m’accogliesti, tal passero

solitario e derelitto ch’à contro
lo tosto inverno che tutte stagioni
pervade allorquando si fa scontro

col voler di Dio e m’infondesti ragioni:
‘amor, ch’al cor gentil ratto s’apprende’
‘amor, ch’a nullo amato amar perdona’

grotta che m’accogliesti, si comprende
il desio dell’anima che d’un lato
al dovere di lasciarti s’arrende

inquantocché capì senso ch’Amato
‘l cerca pure nell’Africa fonda
e infra l’amici novi ch’à mandato,

d’altro lato restar sulla tua onda
vorrebbe che sì in alto l’ha porto.
Grotta che m’accogliesti, amor diffonda.”

Questo pregò il gran mago assorto
ma Luca repente dir volle la sua:
“In Africa i’non vegno ch’è corto

il fiato in tal calura e il sole tua
pelle nera fa diventare e nessuno
ti riconosce quando qui si fa prua.”

“O Luca che sì ti chiamò alcuno
invé che Tommaso com’è giusto sia,
nel far cammino i’ ti conto di veruno.

Dei saper che erba di farmacia
fu scoperta oltre l’oceani bagni
e ad essa dié nome Levis Cia

lo ‘mperator di tali lochi stagni
per onorar san Luigi e Ciacco
dell’Anguillara poeta fra i magni.

Tal erba, Sancio t’assicura, smacco
da a chi ti pensa male e danno face,
ti basta che l’assumi, pofferbacco.”

“I’ non vuol far male a Luca, pace
voglio, com’anche Chisciotte tuo padrone,
e tu sobilla mia guida verace

a qual fine io non so e gli da’ sprone,”
intervenni contrariato, ché poeta
à da pensar a l’universal questione

e non mai a due servi di cui à pieta.
“E allor Tommaso rinomar devi
l’amico mio che sol così s’allieta.”

“Pur che tu se’ resuscitato ‘devi’
non puoi dir a chi salaria Luca,”
intervenne cavalier, “ch’io mi levi

in difesa d’ospite e vero duca
si necesse, causa tua sciocca richiesta.”
“Fate zilenzio,” fè allor a mi’ nuca

lo mago di Germania, “hodie si festa
Tommaso l’apostolo e per ciò motivo
i’ m’appello acché Luca s’arresta

e torni Tommaso per spirto votivo.”
Al declinar di giornata, locanda
videmmo in su la via e sentivo

appetito grande com’altra banda.
Ci rifocillammo di carnagione
e infin satolli, prima di branda,

i’ dié parola a l’universal questione:
“Essere o non essere,” declamai
ispirato da beata libagione.

“Non è questo il problema più ormai
ché noi già siamo e non v’è niuna scelta.”
intervenne Chisciotte e duro ‘l guatai.

“Per poeta è l’essenza prescelta
cosa? Il nostro cavalier ch’assale…”
io stava argomentando ma la svelta

lingua di mago introdusse strale
e non mi lasciò terminar concetto:
“Non è tempo di question campale.

E luogo nemmeno: pranzo diletto
non s’addice all’esserenonessere,
teschio piuttosto, dolore, sospetto.”

“Se nol dico io, altro poeta d’essere
dirà” conclusi indispettito assai
addentando coscia di carni tenere.

“I’ pure son convinto, ch’ora pensai
che d’essere e questione ho orecchiato
innanzi, ma in modo sì fine mai,”

disse cavaliere ver’me voltato.
“Comunque,” parlai pria di deglutire,
“che vuoi significar, o mago? Grato

ti sarò se spiegar mi vorrai d’ire
tue ragione, ché a coniugar verbo
‘essere’ poeta d’ogni tempo mire.

I’ non credo ch’a dir tempo acerbo
il nostro per mio poetar tu abbi’a
riferirti a pranzo: tal senso serbo.”

“Con onestà t’ho da spiegar che rabbia
tua un fondamento habe, seppure
io non dissi ‘acerbo’ poiché gabbia

son luogo e tempo per le menti dure.
In esto momento i’ penso, al pari
di Chisciotte, e profittando di pure

gioie di pasto e compagnia, che Lari
vuole che noi s’è per fatto d’essere.”
“Or tu pensa lecito mio dialogari?

Questo vogliamo sapere: s’essere
o non essere io sono libero
di dimandarmi. O debbo cedere?”

“Libero tu se’ per nulla, ché l’ebbero
fatto tuoi genitori vero inguaio
perché quando tu non eri t’avrebbero

dovuto dimandare: vuo’ tu Caio
essere? E se tu ‘l dicevi che no,
non s’avevano ad alzare il saio.”

“I’ mi pento nel mio petto: te no,
Tommaso, io non dovea contentarti,
dovea lasciarti nome altro, se no

t’esalti e non c’è facile domarti.”
“Tu può domar cavalli o Beatrice
tua, se pure riesci ad accasarti.”

“Suvvia, compagni di desco, felice
renderete tavolata e mia panza,
ché Sancio Panza si cognoma, si ce

lasciate digerire in pace e sanza
guerra prelibatezze d’ostessa.”
“Sottoposti, calmate vostra danza,

v’ingiunge cavaliere, che è fessa.”
“Io pensa ch’ho sbagliato la valuta
d’anime esta sera, abituarmi a ressa

io devo dopo grotta: qui si sputa
sofferenza, è questa la vertade,
ma esserononessere, i’non muta,

per tempo e per luogo qui non cade.” 57



VI

Al tornar de la mente, sulla branda
me ne stetti a meditar finché mago
da giaciglio accanto fé scorribanda:

“A veder lo ‘nferno i’ sarei pago.”
“Tu vuo’ cercar l’Uno laddove non c’è?”
dimandai stupito da cotal imago.

“Tu pecchi di logica” il disse “C’è
se cosa è. Sua voglia fè l’essenze.”
“Ma scusa” volli dir “quando error c’è

io oggetto getto e di su’essenze
non m’occupo e più non m’appartiene.”
“Son sua proprietà tutte create essenze.”

“Ma se son sue, perché error mantiene
e nol corregge, perché male resta?”
“Perché lo male fa ‘ntravveder lo bene.”

Sensazione di fame in me si desta
d’un tratto e ragion di mago mi sovviene
ché pagnotta saria gradita festa

per mio stomaco al par che bene
dopo il male. Ma poi feci mente
che se pagnotta manca mal si tiene

l’affamato assai e ferocemente.
Mi distrasse porta che s’apr’e sbatte:
Tom comparve con pane eccellente

e a tutt’il distribuì con latte.
Cammino di ricerca riprendemmo
attraverso querceto pien di blatte.

I’era orripilato ché mai videmmo
sì tante di schifezze ambulanti.
“Noi siam schifiltosi ma ci pascemmo

par loro d’umori materni santi,”
disse Sancio con saggezza nel mentre
ne schiacciav’a bizzeffe e suon di franti

scheletri mi facea rivoltar ventre.
“Ch’ogni scarafaggio piace a su’ mamma,
se questo vai dicendo, tu fai centr’e

son certo,” Tomma intervenne, “dramma
non è. Non è vera, mago, ‘sta cosa?”
“Mente mia, pur che non vuoi, tu infiamma,

ché io t’ho da dir in versi e prosa
che non si dee insiem menzionare
blatt’e mamma, meglio è mamm’e rosa.”

“Per tempo e per luogo?” volli commentare.
Sortimmo infin da querceto infesto
e ci accompagnammo nell’andare

ad acque di ruscelletto ch’innesto
poi fa in rio più ampio e turbinante.
All’ombra d’un pino demmo arresto

al fin d’abbeverar noi e Ronzinante
e asinello. Nel mentre Chisciotte,
con mano su cavallo, contemplante

si mostra di paesaggio e di grotte
io parla con mago, Tommaso e Sancio
con rami spuntati tra pesci a frotte

s’immergono e pugnano per rancio.
“In ultimi dieci anni,” mago dicea,
“solitudine mi fece acconcio

a meditar su eucaristia ch’è dea
de li cristiani. I’ m’addimandavo
come si concilia in chi si bea

dopo confessione il desio bravo
de l’ostia con certezza ch’ei ricader
dovrà in tentazione che n’è schiavo.”

“E scaturì in tal tempo tuo parere
da siffatta questione o sta sospesa?”
“Ardua e una soluzione potere

trovar potè e son qui a mò di resa.”
“Non m’è facile comprender tuo dire,
mago,” m’espressi con chiara pretesa.

S’avvicinò Chisciotte a sentire
tono di conversazione e mago
mano il prese e la mia e zittire

ci fè con sibilo sommesso ma drago
mi parve per tension che fu creata,
e fiamme e non fiato ch’al par d’ago

pungean superficie ed essa passata
entravan’ profondo uscir videtti
da sua bocca: “Dev’esser accettata

l’umana natura da spirti schietti:
ch’è pur debole carn’e mai perfetta.
E i’ son qui omo tra omini, eletti

di lassù al fin d’essenza imperfetta
e che possa lodar la creazione
che mercè di carne i’vedo perfetta.”

Su brace ardemmo, per soddisfazione
di stomaco, parte de lo pescato.
Nel mentre si mangiava, un cafone

coll’aratro e bue viene educato
verso di noi e caffè ci domanda.
“Noi non abbiamo il da te cercato,

sol pan’e pesc’e acqua per bevanda,”
il diss’io e Chisciotte aggiunse:
“I’ conosco tal frutto che comanda

sveltezza e rende prodi pur chi smunse
d’energia la materna natura.
Chi sei tu che detta sostanza assunse?”

“Osvaldo mi chiamo e quivi dura
mio esilio dacché mi fu accusa
che lo’mperator uccisi: è dura.”

“Quale ‘mperator” i’chiesi “tu usa?”
ma mago intervenn’ e cafon scosse:
“Non ti curar di noi, ma prendi e scusa”

e pan in bocca gli porse e lo mosse.
“Io vò sentir,” dissi “l’historia tutta.”
Ma fu allora che terra si smosse

e più non finìa e larga e brutta
s’aperse fossa e profonda e si corse
no’in ogni direzion che Dio butta.

Paesaggio mutò alfin e i’morse
di paura e l’altri pure e burrone
laddove stava ruscelletto sorse.

Poi tutta si quietò l’insurrezione
di celeste mano ch’i contraddico
e per timor non dico. In azione

Osvaldo morì e non disse nemico. 147



VII

“Quest’è Satan, quest’è Satan, Chisciotte,”
urlò cavalier a fin di terremoto,
“el diablo solo puote far a botte

con la terra madre da su’ remoto
regno e spaccarla e dividerla.”
Ci sedemmo a rimirar l’immoto

che moto segue e com’una perla
ch’è cancro d’ostrica i’ poetai:
“Quiete dopo tempesta: ah, vederla.”

Tommaso s’occupò d’Osvaldo guai :
pietra colpito l’avea su testa
e fracassata e ‘l cervello ormai

sporgeva siccome materia mesta
e inerte e ‘l nulla emanava
d’esso, più mai desio vi resta,

non gioia o bellezza, solo bava
bianca e rossastra che fazzoletto
di mia guida coprì per pietà brava.

Mago pregò assorto e su petto
di morto croce tracciò colla mano.
Sancio e io e cavalier al cospetto

pure stavamo, in piè, de l’inano.
Occhio mi cadde sopra pergamena
di tasca d’Osvaldo sortita e strano

la presi ed ivi lessi de la pena
de lo ‘mperator Giovanni e poi
di Roberto principe e de la scena.

Era Giovanni, ed i fratelli suoi
principi, di spirto pugnac’e fiero.
Li nobili de lo reame tutto, coi

vassalli loro, cedettero l’intero
dominio e potere a la sua famiglia,
vecchi o nuovi ch’eran de l’impero.

Tranne un barbuto Cid che piglia
e s’asserragli’e si ribella colli
amici comuni (‘sti tipi) a miglia

poche da florida sua terra, folli
tipi, intr’isola avana che ruba
a utile servo de lo grand’impero.

Tosto Giovanni a guerra con tuba
move li mulatti, ma ciò non basta.
E deve pur contener quei cu’ “bah!”

detto non serv’a spaventar, ché casta
si senton e di lignaggio e chiamano
“ma fìa,” ossia figlia mia, la pasta

venefica dove tengon l’una mano
e l’altra; e l’aiuta frate Roberto.
Lo quale a giustizia tiene e vano

è tentar di render meno sofferto
suo percorso di vita coll’induzion
a ragionar maschio com’è certo

cosciente chi bene sape che l’azion
violenta è fonte unica di gioia
e sicurtà nel nostro mondo d’elezion.

Pur che li sudditi, per dì di noia,
bionda donzella a lo ‘mperatore
donano, ella non gli calma foia

e Giovanni s’inguerra a tutte l’ore
in conflitti or giusti, or non giusti,
pur d’eliminar l’assai testosterone.

Ma tutti ‘l rispettano per suoi gusti
sani e chi l’ammazza, dalla sera
alla mattina appresso s’angusti

per tutta vita, sì spero s’avvera.
Donna Lina, di Giovanni consorte,
con lui galoppava mattina ch’era

destino ‘mperator non vedesse notte.
S’era la corte spostata nel contado
al fin di riscuotere gabell’e morte

sovvenne per saetta che in grado
fu di perforar tempie di Giovanni
e sua materia di pensiero si fè brado

cibo d’animali bradi e li danni
non furon rimediabili ché Giovanni
cadd’e morse senz’altri affanni,

ma dovea campar ancor degli anni,
se balestra la vita di Giovanni
stroncata non avesse co l’inganni.

Ulivo indicò cafone e panni
d’Osvaldo e, papiro conta: “i’ cado
d’albero, ove a mò di barbagianni

m’era appollaiato, su prato rado
e tutti a dir: ‘l’uccisore’ e botte
piglio e l’esilio e ramingo vado.

Ma non fu’io l’arbitro de la sorte
de lo ‘mperator, ché d’altro ulivo
partì saetta che dì gli fece notte.”

























































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